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giovedì 19 febbraio 2009

Sa ponidùra

"Candho ndh'est essidu de presone at fatu sa ponidùra: l'an regaladu chentughimbanta arveghes sos custrintos e sos amicos de su malassortau essin a dimandhare sa ponidùra o pedulìa e totu sa bidha est pronta a dare."

La ponitura era una specie di questua di bestiame fatta da chi intendeva crearsi una posizione, migliorare la sua condizione o rifarsi del perduto per spese processuali o per dissesti finanziari.

Prima di aggirarsi per le cussorgie, in cui si intendeva far la ponitura, il questuante ne dava avviso agli amici, o meglio all'amico presente in ogni cussorgia, presso il quale era solito recarsi, indicando a ciascuno il giorno della visita.

Veniva predisposto in tal senso un preciso percorso dei luoghi da visitare e il tempo da dedicare a ciascun luogo, a seconda dell'estensione degli stazzi in qui questuare.
L'amico della cussorgia, primo fra tutti a dare al questuante il capo di bestiame desiderato, lo accompagnava, insieme ai suoi parenti più stretti, ai diversi stazzi dove dopo aver mangiato, esponeva il motivo della sua venuta, pregando caldamente il padrone di casa a voler accondiscendere al desiderio del questuante, dandogli la più bella pecora, capra o giovenca della sua mandra.

Se quest'ultimo accettava, si mostrava felice di poter contribuire a formare o risollevare le sorti del questuante. In caso contrario, dispiaciuto di non poterlo aiutare, lo informava del motivo di tale decisione.

Il bestiame questuato in ciascuna cussorgia veniva lasciato custodia all'amico della cussorgia, e veniva ritirato dal questuante una volta terminata la ponitura per essere portato al proprio stazzo o al luogo prefissato per tenerlo a pastura.
La questua si faceva separatamente, o di capre, o di pecore o di vacche, che non avessero ancora figliato. Il questuante era obbligato restituire il capo donatogli nel caso in cui il donatore fosse passato a sua volta per la ponitura.

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domenica 14 settembre 2008

Tiahauanaco, città misteriosa perduta sulle Ande

La chiamano la "montagna sacra" di Tiahuanaco.

La piramide di Akapana, 16 metri di altezza, più 200 di lunghezza, si trova a 4mila metri di altezza nell'ovest della Bolivia, a circa 70 km da La Paz. Qui si celano i misteri di una civiltà preincaica vecchia di migliaia di anni. La sua importanza, non solo archeologica, è dimostrata dal gesto del primo presidente indio Evo Morales, che alla vigilia della sua insediazione, entrò nella costruzione a piedi nudi e ricevette da un sacerdote Tiahuanaco (o Tiwanacu) lo scettro di capo spirituale e politico di tutte le comunità indigene del Paese. In questo luogo magico, un'equipe di "Indiana Jones" italiani ha aperto un tunnel che porta direttamente alle origini della civiltà. Una spedizione che è valsa ai ricercatori anche la celebrità sulle emittenti locali.

La spedizione. Il team dell'associazione Akakor Geographical Exploring, composto dall'archeologo subacqueo Lorenzo Epis, la geologa brasiliana Soraya Ayub, gli speleologi italiani Alessandro Anghileri e Paolo Costa e l'archeologo boliviano Edurado Pareja, ha portato alla luce una serie di gallerie sotterranee che collegano la piramide di Akakana. Gli studiosi sono entrati attraverso un cunicolo molto stretto alla base del lato nord e hanno proseguito fino a incontrare una biforcazione che prova l'esistenza dei collegamenti. Già nel 1877 due esploratori boliviani entrarono da quel tunnel, ma una volta arrivati al bivio, non proseguirono per paura di non riuscire più a trovare l'uscita.

Gli scavi della "montagna sacra". "La spedizione, che fa parte di un progetto più ampio di scavi iniziato tre anni fa, finalizzat
o a riportare alla luce le parti coperte della struttura, è stata un vero successo - racconta Ayub, specializzata nell'esplorazione di grotte - Abbiamo trovato questi cunicoli l'anno scorso". Gli studiosi, che torneranno sul sito a gennaio, e vi erano già stati diverse volte, stanno cercando di capire per cosa fossero usati. "Le due ipotesi più accreditate - spiega ancora Ayub - sono che servissero ai sacerdoti per scomparire in certi momenti delle cerimonie, una sorta di "effetto speciale", oppure come uscite di emergenza in caso di pericolo. Un'altra idea, ancora da verificare, è che potessero portare ad altre stanze dove si tenevano riti interni o dove venivano nascosti tesori".

Una civiltà misteriosa. La cultura di Tiwanaku si sviluppò, secondo alcune stime, a partire dall'anno 1.600 a.C., mentre altre ritengono di
potere datare la sua nascita già a partire dal 2.000 a.C.. Per il padre dell'archeologia boliviana, Arthur Posnansky, che ha studiato per 30 anni la cultura di Tihauanaco, quest'ultima esisteva già nel 10.000 a.C. "Di certo - afferma Ayub - c'è che quando gli Incas arrivarono il tempio era già in rovina". Anche le cronache dei conquistatori spagnoli nel XVI secolo, parlano di una città disabitata. Sulle cause del collasso di questa civilità molto sviluppata, avvenuta intorno al 1100 d.C., ci sono varie ipotesi: l'invasione di popolazioni dal sud, una catastrofe ecologica o la perdita di fede nella religione predominante.

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venerdì 1 agosto 2008

Cane Fonnese (cane sardo): cenni storici

Cane di antichissima origine, conosciuto anche come cane pastore fonnese o mastino fonnese si suppone che derivi dall'incrocio tra cani locali di tipo levrieroide ed i feroci molossi (canis pugnax) utilizzati nella campagna del 231 A.C. dal console romano Marco Pomponio Matone per combattere e sottomettere gli indomiti ribelli delle zone interne della Sardegna.

Peraltro, uno studio in corso da parte del dott. Marco Zedda della facoltà di Medicina Veterinaria dell'università di Sassari ipotizza che i cani importati dai romani fossero, in realtà, segugi (sagaces canes) dal fiuto finissimo, atti a scovare i nascondigli dei ribelli sardi mentre, i molossi, erano i cani locali, preziosi compagni dell'uomo nuragico nelle varie attività (caccia, allevamento, guerra ecc.).

Sono del 1774 le prime notizie storiche che riguardano i cani di Fonni. Padre Francesco Cetti nel suo libro "Storia naturale della Sardegna" li descrive come "cani di grossa taglia e di bella apparenza" e, inoltre "le dimensioni opposte del veltro e del mastino si elidono scambievolmente...vi trovano riunite in un sol corpo la forza, la velocità l'odorato...e ne risulta un grande risparmio di corpi poiché uno solo fa gli uffici di molti."

Nel 1841 Baldassarre Luciano in "Cenni sulla Sardegna" parla dei cani di Fonni in questi termini: " E' una famiglia di gran corpo di docilità, destrezza e forza. Nel villaggio stanno a guardia delle case, nel salto a custodia delle greggi contro i ladri e le volpi. Compagni dè banditi li vegliano e li aiutano negli incontri lanciandosi sul nemico benché armati e in sella, e cogliendoli e precipitandoli con gravi ferite al collo se non siano respinti."

Nel 1861 Il Padre Gesuita Bresciani nel libro "Dei costumi dell'isola di Sardegna" parla di una razza di cani "d'indole cupa, cogitabonda e triste in eccesso, tanto valenti alla guardia che i Sardi li hanno a ragione in altissimo pregio..... hanno il muso aguzzo, gli orecchi ritti, la vita lunga e slanciata, gambe snelle e sottili, il pelo irto o rado di colore lionato o bigio piombo....sono fedeli al signore o dolci con i famigliari ma turci, odiosi e feroci con gli stranieri."

L' addestramento durissimo e cruento cui venivano sottoposti i cani fonnesi nel passato (forse, in qualche caso, ancora oggi) consisteva nel tenere il cane, ancora cucciolo, al buio in buche scavate nel terreno e ricoperte di frasche, senza contatti umani se non col proprietario. il cibo era costituito da latte di pecora così da creare uno stretto collegamento nutrimento-pecora-madre e quindi il gregge da difendere fino alla morte.

Un altro sistema di addestramento consisteva nell'aizzare il cane contro un fantoccio dalle sembianze umane che portava - legata al collo - una vescica piena di sangue. I cani imparavano ad azzannare il collo del fantoccio subendo, di conseguenza, un condizionamento che formava un animale estremamente aggressivo e feroce specialmente nei confronti dell'uomo. Animali con queste caratteristiche sono stati utilizzati in passato anche a scopi militari e di difesa del territorio. Nel 1793 i francesi al comando dell'ammiraglio Treguet tentarono di conquistare la Sardegna sbarcando nella spiaggia del Poetto, nel golfo di Cagliari: L'impresa fallì anche per l'intervento di volontari sardi che, vista la flotta dei francesi accorsero in gran numero dalle montagne vicine con i loro cani che, aizzati in branchi contro gli invasori, contribuirono a vanificarne lo sbarco, incuranti degli sparie del fumo.

Padre Antonio Bresciani (Dei costumi dell'isola di Sardegna, 1861) parla di quei cani come dei fedelissimi mastini tigrati e descrive cosi l'avvenimento:" quelle tigri, fatte più calde e frementi al fuoco, al fumo, al fragore delle artiglierie, correndo e nabissando, colle aperte bocche, investirono l'oste nemica; ed arricciando i peli non lasciavanli riavere..... beato chi potea gettarsi in mare a salvamento...."

Mario Sanna

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mercoledì 30 luglio 2008

Cinghiale, l'animale divino

Il Cinghiale, ancora presente in Sardegna fortunatamente, tra i Celti era considerato un animale degno di molti onori come il gatto per gli Egizi o la vacca in India. Il cinghiale evocava la forza e il vigore e soprattutto il rapporto con la foresta, luogo sacro per eccellenza.

Abbiamo conferma della sua importanza dal ritrovamento di scheletri o denti di questo animale in tombe dell' età del Ferro; su monete si trova la sua immagine, e l'arte celtica gli ha riservato notevole attenzione.
La presenza del cinghiale tra numerosi ex voto rinvenuti si pone come ulteriore conferma della straordinaria importanza che questa creatura svolgeva nella cultura celtica, spesso posto accanto alle divinità. Infatti il simbolo del cinghiale era di fianco al dio Lug e nella festa di Samain poteva anche essere sacrificato alla divinità, ma tenendo in grande considerazione il suo valore. In un'iscrizione gallo-romana rinvenuta a Langres, Mercurio è chiamato Moccus porco. E il re-cinghiale, twrch trwyth, che si oppose ad Artu', rappresentava la classe sacerdotale in lotta contro la regalità.

Il padre del dio Lug, Cian, aveva il potere di trasformarsi in cinghiale per meglio riuscire a sottrarsi ai pericoli. Forse anche in relazione all' importanza che questo animale rivestiva nella religione celtica, il Cristianesimo lo indicò come una rappresentazione del maligno: creatura del mondo selvaggio, impetuoso, assimilabile alla foga delle passioni, devastatore delle colture. A differenza di altri animali, cui va riconosciuto un simbolismo posto in relazione all'universo guerriero, il cinghiale era connotato con toni che rimandavano al mondo della religione: era spesso accanto ai druidi.
Come i sacerdoti viveva nella foresta di cui era parte integrante: in alcune raffigurazioni il cinghiale è posto accanto ad una grande quercia.

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giovedì 3 luglio 2008

I villagi degli Indiani Anasazi

La cultura Anasazi si sviluppò nel Sud Ovest degli Stati Uniti, molto prima dell'arrivo dei bianchi ed ha lasciato una quantità di testimonianze archeologiche che ancor oggi si possono ammirare nel territorio dei quattro cantoni, ove si incontrano le attuali frontiere dell'Arizona, Nuovo Messico, Utah e Colorado.

Il centro più importante di questa cultura si trova nel Chaco Canyon ove esistono tuttora numerosi villaggi in pietra, chiamati Le Grandi Case dotate di innumerevoli kiva, cioè di luoghi sacri nei quali i nativi si radunavano per i loro riti. Sorta praticamente all'epoca di Cristo, la cultura Anasazi si sviluppò lentamente fin da giungere al cosiddetto Chacoan Phenomenon, che ha rappresentato il massimo sviluppo di questo popolo tra il 1050 ed il 1125 d.C. In quest'epoca gli Anasazi costruirono molte strade, ampie talvolta anche nove metri, le quali, partendo generalmente dal Chaco Canyon, che forse era la loro capitale, si sono sviluppate per oltre 300 chilometri collegando, con lunghi tratti rettilinei, i vari villaggi e specialmente particolari luoghi di culto. Tra queste strade va ricordata per la sua lunghezza la Great North Road, cioè la "Grande Strada del Nord", che s'è sviluppata, per oltre una ventina di chilometri, esattamente nella direzione nord-sud.


Le migrazioni

Più tardi le incursioni degli Atapasca, cioè dei Navajo e degli Apaches, costrinsero questa popolazione a rifugiarsi in diversi villaggi sotto roccia che ancor oggi si possono ammirare a Cliff Palace nella Mesa Verde, per esempio, ed in molti luoghi del Canyon de Chelly e di altre zone. In fine, a più riprese, verso il 1125 nella zona del Chaco, si manifestò una carestia terribile che costrinse questa popolazione a migrare in parte verso settentrione, nella regione delle Aztec Ruins, delle Salomon Ruins e di altre località poste nell'estremità nord del Nuovo Messico. Anche qui però le cose non andarono molto bene, altre carestie costrinsero la popolazione Anasazi a migrare ancora, partendo dalla zona di Aztec, verso il 1275, per recarsi, almeno in parte, con una lunghissima marcia, fino al luogo chiamato Casas Grandes che si trova nell'attuale stato del Messico ad oltre 620 chilometri più a sud del Chaco Canyon.

I discendenti più importanti di questo popolo sono ora gli Hopi che vivono nell'Arizona, assiema agli Zuni, agli Acoma e ai Pueblo del Nuovo Messico che vivono ora ritirati nelle loro riserve.


Nuove interpretazioni degli archeologi

Recentissimamente l'archeologo americano Stephen H.Lekson ha pubblicato una notizia sulla rivista Archaeology veramente di grande interesse riguardante queste antiche migrazioni. Paragonando le date in cui è finita la cultura Anasazi nel Chaco Canyon con l'inizio dello sviluppo della stessa cultura in Aztec e quindi nella Casas Grandes del Messico, lo studioso ha trovato che queste date sono in stretta successione, quasi che la popolazione, almeno una sua parte, si sia spostata, in fasi successive, da un posto all'altro per finire, dopo una lunghissima marcia, addirittura nel Messico, a Casas Grandes. Ma ciò che desta ancor di più l'interesse è il fatto che i villaggi di Aztec Ruins, di Salomon Ruins, di Chaco Canyon e di Casas Grandes, sono tutti perfettamente allineati lungo uno stesso meridiano, il 108. Che questo sia un caso è altamente improbabile; appare invece molto più credibile il fatto che questo allineamento sia stato voluto.


Un problema astronomico

La curiosità dell'autore è stata stimolata principalmente dal seguente problema: in che modo gli antichi Anasazi hanno potuto mantenere un allineamento così perfetto lungo un meridiano per oltre 600 chilometri? Di quali mezzi si sono serviti? Se vogliamo analizzare la questione bisogna innanzitutto escludere che coloro che si sono spostati, partendo dal Chaco Canyon, prima verso nord, e poi verso sud si siano serviti di una bussola. Questo strumento non esisteva nell'America di quell'epoca, ed inoltre, anche se per assurdo gli Anasazi avessero avuto questa possibilità, gli errori gravi che questo strumento introduce non avrebbero consentito di posizionare con così alta precisione i quattro villaggi: Chaco Canyon, Salomon Ruins, Aztec Ruins (verso nord) e Casas Grandes (verso sud). Indubbiamente devono essere serviti di osservazioni astronomiche fatte specialmente sulla posizione del polo celeste, poiché neanche l'uso dello gnomone, che utilizza il Sole, era conosciuto da questa popolazione.

E' facile immaginare un allineamento sul polo, però in pratica bisogna tener presente che, nell'epoca della migrazione degli Anasazi, la stella Polaris, a causa del fenomeno della precessione degli equinozi, era lontana dal polo e quindi non poteva servire come guida per un allineamento così lungo e preciso. Quale poteva essere dunque il metodo utilizzato? Purtroppo non abbiamo documenti di nessuna specie per risolvere la questione; si può solamente tentare di immaginare una metodologia, quanto mai semplice, che possibilmente poteva essere adatta alla mentalità di questa gente.


Una possibile soluzione

Per individuare il polo, gli Anasazi, abilissimi osservatori di fenomeni celesti (il primo dipinto della apparizione della supernova del 1054 si trova proprio nel Chaco Canyon) possono aver utilizzato un semplice intreccio di rami, una specie di rete di legno, la quale doveva essere collocata fissa in una posizione elevata, mentre l'osservatore poggiava l'occhio su un palo appuntito per consentire una mira precisa sulla rete stessa che era posta verso nord. Seguendo per diverse ore il movimento circolare della Polaris dietro l'intreccio di legno, gli astronomi Anasazi potevano segnare con delle tacche, fatte sui rami, la posizione della stella quando, vista dal posto di osservazione, veniva occultata da ognuno di essi. Procedendo in questo modo per diverse notti, era possibile tracciare un sufficiente numero di tacche sui rami, tale da poter permettere di individuare buona parte della circonferenza che la stella descriveva attorno al polo. Ciò fatto, è stato molto semplice individuare il centro di questa circonferenza, cioè il polo, ed inoltre non è stato difficile riferirlo poi alle stelle circostanti per poterne memorizzare l'esatta posizione, anche se il polo celeste non era indicato da alcuna stella.

Ciò fatto, per tracciare la strada lungo il meridiano desiderato, un gruppo di esploratori deve aver acceso un fuoco sul luogo di partenza e, dirigendosi verso sud di notte, gli esploratori si devono essere portati nel luogo più lontano possibile dal quale si poteva però ancora scorgere il fuoco del punto di partenza. Spostandosi quindi in modo da vedere allineato il polo celeste, che già sapevano individuare, con il lontano fuoco, hanno potuto fissare il posto che veniva così a trovarsi esattamente sul meridiano del punto di partenza. Nelle notti seguenti procedendo nello stesso modo, per piccoli tratti sul terreno accidentato, e per lunghe marce sul terreno piano, possono aver percorso anche un cammino lunghissimo sicuri di trovarsi sempre sullo stesso meridiano.

Questo sistema, molto semplice, poteva aver consentito agli Anasazi di allineare in tempi successivi, i quattro grandi villaggi, esattamente nella linea nord-sud. Ma perché tutta questa precisione? E per quale scopo i vari luoghi sono stati orientati così esattamente in questa direzione? Non è facile rispondere a questa domanda; certo è che nella risposta entra la cosmovisione di questo popolo il quale aveva utilizzato in più occasioni questo particolare orientamento. A Pueblo Bonito, per sempio, si trovano, nell'urbanistica della città, diversi allineamenti tutti disposti lungo il meridiano.

Per memorizzare la posizione del polo è possibile che gli Anasazi abbiano utilizzato un semplice strumento simile al pi dei cinesi, illustrato nella figura.

Tutto questo, non solo dimostra la precisa e costante osservazione del cielo da parte di questi nativi, ma ci può fornire anche utili indicazioni per penetrare nella loro cosmovisione nella quale la natura e le manifestazioni celesti rappresentavano un elemento fondamentale della loro cultura

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mercoledì 25 giugno 2008

La tribù dei Dogon (Mali)





I Dogon sono una delle oltre venti etnie che abitano
la parte orientale del Mali, al confine Nord Ovest del Burkina Faso. E’ una popolazione di circa 300.000 persone che risiede in piccoli villaggi al di là della pianura alluvionale del complesso fluviale Niger-Bani, disseminati ai piedi ed alla sommità della falesia di Bandiagara, una parete rocciosa dell’altezza media di 400 metri che attraversa il Sahel per oltre 200 chilometri a sud di Timbuctù.














L’altopiano s’interrompe a strapiombo sulla pianura di Séno-Gondo, con una parete rocciosa orientata verso Nord-est fino a Douentza e verso est fino a Hombori. Questo territorio è sotto la protezione dell’UNESCO, che lo ha dichiarato “patrimonio dell’umanità” per la sua rilevanza naturale e culturale. Stabilire con certezza l’origine di questa popolazione non è cosa facile.



Secondo le teorie antropologiche p
accreditate, i Dogon sarebbero i discendenti di un’antica popolazione di nomadi originari del Mandé, da cui fuggirono attorno al X secolo probabilmente per sfuggire alle spinte espansionistiche dei grandi imperi islamici medievali costituitisi sulle sponde del Niger e per salvare, così, la loro identità culturale e religiosa.

Dal punto di vista etnologico, i Dogon non sono poi molto diversi dai popoli con i quali confinano. I villaggi Dogon si sviluppano in basso, ai piedi della roccia. Sono costituiti da un insieme di casupole raggruppate lungo esili strade di terra. Le case sono costruite con una mistura di fango, sterco e paglia, resa più resistente da un’ossatura in legno. Più in alto stanno i granai, coperti da un caratteristico tetto di paglia a guglia.

I villaggi Dogon sono orientate da nord a sud e la sua pianta rappresenta simbolicamente il corpo umano. La testa è il togu-nà, la “casa della parola”, dove si riuniscono gli anziani per le decisioni più importanti. Il torace è rappresentato dalle case costruite e i granai.

Le mani sono rappresentate dalle case delle donne mestruale, situate ai due estremi del villaggio. In basso c'è l'altare, dalla caratteristica forma fallica. La gran parte della vita famigliare si svolge nei cortili della case. Il togu-nà l'elemento fondamentale ed il punto di riferimento della comunità. Al suo riparo vengono prese le decisioni che riguardano il villaggio.

I Dogon lo indicano come casa degli uomini
poiché ad essi è riservata. Generalmente ha una pianta rettangolare e poggia su pilastri di legno o di pietra. Il tetto è formato da strati alternati di steli di miglio che contribuiscono ad isolarlo dalla calura. Ogni 10-15 anni è necessario rifare il tetto e tutto il villaggio viene coinvolto in un’attività che ha importanza quasi religiosa.



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