mercoledì 15 ottobre 2008

Quando a Oliena si parlava albanese

Guardate il borgo della Sardegna centrale che vedete qui fotografato, celebre per i suoi vini, per i suoi formaggi, per le escursioni montane, per le sue attività culturali e per aver dato i natali al calciatore sardo più noto all’universo mondo. Immagino ci siate arrivati da voi (eh già, c'è anche il titolo), se no ve lo dico io: questa piccola cellula di sardità è Oliena, od Ulìana, come viene pronunciata oggidì.

Come quasi tutti i centri della Sardegna porta un nome che sfugge alle indagini condotte scientificamente, c’è chi ha pensato all’olio, e inevitabilmente perché nel territorio ci sono oliveti (ma li han portati i Pisani, quando il nome Olian c’era già) e in quanti punti della Sardegna non ci sono?; altri hanno pensato agli Iliensi (i figli di … Ilio, da cui una parte dei Nuragici diceva di discendere).


La mia indagine, che parte proprio da qui tende invece a rilevare come il suffisso -ena. -ana sia frequentissimo nei toponimi del sostrato preromano; e qui la scuola mediterraneista avrebbe obiettato: “roba africana”, mentre l’ipotesi orientalizzante, propugnata in Sardegna dal solo Pittau, di risposta: "roba etrusca". Ma guardiamo il tema (cioè la parte iniziale), esso è Oli- e per ora fermiamoci qui.


Quasi che i nostri lontani antenati abbiano inteso lasciarci qua e là qualche voluta traccia del loro passaggio sulla terra, scavando nel sottosuolo di Oliena a metà Ottocento l’archeologo Giovanni Spano riportava alla luce una statuetta d’epoca romana che presto veniva ricomposta e prima tributata a Belzebù, il re delle mosche della tradizione semitica (giacché di mosche pareva ricoperta), poi si attribuiva a una figura di cui si aveva avuto sentore fino ad allora solo attraverso le fonti greche relative alla Sardegna preistorica: quella di Aristeo, mitico apportatore di tecniche innovative nell’agricoltura, nella viticoltura e soprattutto nell’apicoltura, venuto, chissà mai quando, da Tebe in Beozia (il classico ex oriente lux).


Le api incise sul petto indicavano che era una statuetta votiva a questo antico euretes orientale; non solo, il posto del ritrovamento parlava chiaro: la località di Su medde (o sa 'idda de su Medde), che è una variante locale del sardo su mele ‘il miele’ (allotropi dunque del latino Mel(l)e). Ma la cosa che nessuno approfondì era che la statuetta era stata scavata all'interno di un salto, detto (e così ancora oggi): Dule. Tale parola in chiave latina non trova corrispondenze confacenti, mentre il lettore albanofono sa, essa consuona perfettamente con la voce albanese (propria e non prestito latino, turco o slavo): dyllë che vuol dire ‘cera’ !!!


Orbene questa potrebbe essere una casualità, il mondo è pieno di corrispondenze casuali: quella celebre anglosassone e persiana della parola bad che indica la stessa cosa ‘malvagio’, ma ha origine e percorso etimologico diverso. Potrebbe dunque essere. Ma nel mio libro di altre circostanze casuali così, se ne trovano. Anzi, se da una esigua traccia se ne deve pur trarre un qualche elemento deduttivo, io ritorno ad Oliena e chiedo retoricamente: "un territorio che ci consegna dall’antichità una statuetta consacrata a una divinità dell’apicoltura, potrebbe avere una qualche intima ragione a definirsi come “luogo di favi”? Mi rispondo di sì, perché il lettore albanese sa bene, ma sopratutto lo sa bene quello arbëresht (gli albanesi d’Italia), che ha conservato una variante più pura, il nome del favo nella sua lingua suona: hol-i !!! E anche questa (ce lo dicono i vari Meyer, Çabej, Demiraj e Orel) è voce indeuropea, parente del latino alveus, del greco aulos, e sopratutto dello slavo ulьjь e del lituano aulys che valgono 'favo delle api'.


Lo so a questo punto il lettore scettico storcerà il naso, perché è per natura difficile a convincersi; e ha ragione, ci vuole ben altro: la toponomastica è sempre argomento vischioso e si rischia di fare delle scivolate da cui non ci si rialza più. Va bene, miscredente, eccoti servito.


Allora, nel territorio che vedi indicato (Oliena, Orgosolo e Ogliastra) c’è una parola che da decenni ha fatto impazzire prima il Wagner (puoi controllare nel suo celebre DES a pag 489) poi tutti gli altri glottologi: eni, enis o eniu. Con questa misteriosa parola in questa plaga di Sardegna si designa l’albero del tasso (tassonomicamente, è il caso di dirlo, la taxus bacchata). C’è chi ha pensato al basco e chi ha detto: boh. Inutile che lo dica io: l’albanese lo sa già: perché per la stessa pianta, ha la denominazione di enjë (che sembra il nome di una cantante irlandese), ma che è parola misteriosa anche per la lingua albanese, e che nel mio libro ho cercato di interpretare (in chiave, inutile dirlo, indoeuropea).

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