martedì 24 giugno 2008

La leggenda dei petroglifi (2)

Aleggia sull’origine dei petroglifi antropomorfi sardi un’altra misconosciuta leggenda, forse coeva della precedente. Secondo il glottologo Michael S. Hughes, appassionato di linguistica sarda, la prima e la seconda leggenda facevano parte di un’unica leggenda originaria che le conteneva entrambe e che poi, nella tradizione orale attraverso le generazioni, si sarebbe divisa accidentalmente. La prima delle due cellule ebbe più fortuna della seconda.


Nella versione che le vedeva insieme, le due leggende erano probabilmente concatenate e la seconda doveva essere la continuazione logica e temporale della prima. Un frammento di mezzo, andato perduto, avrebbe accennato all’oblio nel quale caddero per lungo tempo i petroglifi.
Al contrario, la tesi più accreditata (G. Lilliu, “Ichnussa”, 1979) nega ogni legame fra le due leggende ed attribuisce la prima all’origine dei petroglifi antropomorfi di Tomba Branca, in località Moseddu, Cherémule (SS).
La seconda leggenda sarebbe invece relativa ai petroglifi reperiti in località Sas Concas, Onifèri (NU).

Essa fu udita dinanzi a un caminetto dal racconto di Tiu Bustianu, uno dei pochissimi in vita a ricordarla:

Era un pomeriggio estivo di un giorno imprecisato di tanti anni fa. L’estate di cui si narra fu particolarmente afosa ed arida. La siccità perdurava da parecchio e si cominciava a temere per le colture autunnali e per la sorte del bestiame alla ricerca del pascolo.
In quel vago pomeriggio afoso, Nannìa cercò una posizione comoda nel giaciglio di paglia e si addormentò sotto i raggi della palla di fuoco che riscaldava esageratamente la terra. Gli suggerirono il sonno: la sazietà, la solitudine, la pace, la noia ed il frequente frinire delle cicale che accompagnava il calore implacabile. Qualche altro animale sonnecchiava a breve distanza.
Accade presso tutte le genti che il silenzio ed il torpore generino idee e propositi grandiosi. Nannìa fu ispirato da uno di questi pensieri; probabilmente sudava e forse qualche insetto si posò per qualche istante sulla sua pelle arsa. Sognò delle immagini che lo impressionarono molto più che se le avesse vissute nella pena della veglia. Erano delle figure simboliche mai viste prima, ma riconoscibili, quasi familiari. Avevano un impeto mistico e tenebroso, anzi no, erano rassicuranti, paterne, forse soprannaturali ma di sicuro propiziatorie. Dovevano essere dei segni della divinità solare, visto che da questa erano pur stati suggeriti. O forse erano state le divinità ancestrali, i Padri da cui era originata la genìa del popolo sardo e, prima di loro, della dinastia di Ur, ad averlo illuminato.
Nannìa vedeva le sagome umane così vive e carnali da sembrare eterne o realizzate da una mano adolescente, magari ispirata da un amore inconfessabile.
Le fissò sulla pietra. Ne intuì le dimensioni e ne colse la superficie, ruvida e fredda. Fu perché sognò sotto il sole che trovò conforto nel freddo della pietra.
Si svegliò, con le immagini appena sognate che ancora gli apparivano con vigore, come in un delirio. Mosso dall’intento di fermarle prima che potessero svanire, raggiunse la piana e accorse alla dimora di Ur-Ilbaba, re-pastore del villaggio. Gli rivelò che gli Avi gli avevano ispirato delle immagini in sogno. Si proponeva di incidere le figure sulla pietra così come gli erano apparse: rappresentare l’implorazione avrebbe reso clemente il cielo e propiziato la fine della siccità.
Il re, distrattamente sonnolento, acconsentì con un cenno del capo, quindi bofonchiò un -Fache, fache… (Fai, fai pure…) e si voltò dall’altra parte del giaciglio.
Nanna si concentrò allora sulla scelta dell’ubicazione…
-Tiu Bustianu saltò questo pezzo-
…Scelse infine le rocce cave delle domus de janas, dove un tempo si compiva il rito del seppellimento. Vide una parete di roccia dove avrebbe potuto comodamente lavorare senza doversi curvare troppo. Intuì il tronco, poi gli arti, aperti nel gesto di prostrazione alle divinità ancestrali. La testa rotonda ed il pene manifestamente raffigurato, come un quinto arto, a rappresentare la fertilità.
Con meraviglia, sgomento, forse anche con sollievo, scoprì, sotto le cicatrici di muschi antichi, la sagoma di una testa esattamente identica a quella da lui sognata e che stava per tracciare. Rimuovendo i detriti si accorse, al chiarore della lucerna, che le figure antropomorfe del suo delirio erano già incise sulla pietra. Qualcuno prima di lui, forse millenni prima, aveva avuto la medesima intuizione e lo aveva anticipato.
Il numero delle figure, la loro disposizione, le dimensioni… tutto, fino al minimo dettaglio, era riprodotto come lui lo aveva intuito. Si era trovato a disseppellire ciò che era sul punto di creare. Pensò che l’anima di chi aveva inciso quei petroglifi ora albergasse nel suo corpo; sentì un brivido ed avvertì l’energia del poderoso demiurgo che lo aveva ispirato nel sonno.

Tiu Bustianu si interruppe e chiuse le palpebre per qualche secondo. Il bicchiere di vino stretto nella mano destra, il sigaro, ormai spento, nella sinistra.
Si scosse, distrattamente sonnolento, e con il tono di chi si sta per congedare fece: -Beh!…
Sbadigliò, posò il bicchiere ed accennò a ritirarsi, mentre il più giovane dell’uditorio insistette per sentire la fine.
-Ello sa fine cheres inténdere? Sa fine fit custa, non bi nd’at àtera de “fine”, no! -Disse quasi schernendolo Tiu Bustianu.
(Vuoi sentire la fine? La fine era questa, non ce n’è altra di fine, no!)
Infine, poggiando sul petto le mani fiere concluse:
-Beh, como nos corcamus…
(Beh, adesso ce ne andiamo a dormire…)
Un sacro torpore sonnolento, analogo a quello che aveva colto Nannìa e Ur-Ilbaba, lo stava sorprendendo.

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